Laura Matilde Mannino traduce per Peacelink un testo pubblicato dallo psicologo Lucius Caviola a proposito di una sua recente ricerca, che dimostra come lo specismo sia effettivamente un costrutto psicologico e che ha affinità con altre forme di pregiudizio intraumane.
Di seguito il link al testo tradotto, è possibile infine leggere alcune riflessioni su queste ricerche che si potrebbero tranquillamente definire come “la scoperta dell’acqua calda“.
La psicologia dello specismo
Considerazioni sull’argomento
Per prima cosa è importante sottolineare che per fortuna c’è chi (come Lucius Caviola) si occupa di specismo nell’ambito della ricerca psicologica accademica, e chi (come Laura Matilde Mannino) si occupa di tradurre questi testi e di pubblicarli per la loro diffusione in lingua italiana. Se non ci fossero persone umane come loro (e come poche altre purtroppo), l’argomento “specismo” e di conseguenza l’antagonista “antispecismo” sarebbero relegati ad una ancor più stretta cerchia di interesse. Una vera e propria nicchia.
Ma torniamo all’argomento nello specifico. Caviola nella sua introduzione al lavoro svolto nel 2018 unitamente con Everett e Faber afferma «lo specismo è stato clamorosamente quasi del tutto trascurato dagli psicologi (a parte alcuni di essi). Una ricerca fatta su Web of Science, all’inserimento delle parole chiave “specismo” e “relazioni tra umani e animali” ci rivela che negli ultimi 70 anni in tutte le riviste di psicologia sono uscite meno di 30 pubblicazioni». Dunque, un argomento così impattante sulla nostra quotidianità di Umani e soprattutto così devastante per gli altri Animali, è stato preso in considerazione dalla ricerca accademica in psicologia solo meno di 30 volte in circa 70 anni. Peraltro Caviola dimostra involontariamente quanto la ricerca sia lontana dalla conoscenza del fenomeno, citando Peter Singer e non Richard Ryder (che peraltro è uno psicologo!) come riferimento per l’introduzione del termine “specismo“, dando a intendere la concezione di specismo come puramente filosofica. Tutto ciò è ancor più sconfortante se si pensa anche al fatto che lo specismo è un fenomeno talmente complesso e vasto, che le sue componenti filosofica e psicologica non possono certo essere sufficienti a descriverlo. David Nibert giustamente ne ha suggerito anche una sociale definendo nel 2002 lo specismo come «un’ideologia creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali» (a tal proposito si consulti la definizione di specismo fornita nel libro “Proposte per un Manifesto antispecista”).
Dunque nei confronti dello specismo è senza dubbio necessario, per comprenderlo, un approccio ampio e multidisciplinare (anche storico, etnologico, antropologico, linguistico, pedagogico ecc.).
In seguito a quanto detto, sorge una domanda: se per cominciare la trattazione dello specismo in psicologia sono dovuti trascorrere ben 50 anni, quanti ne dovranno passare perché lo si affronti anche in sociologia e nelle altre discipline?
Per concludere e riprendere il titolo di questo articolo, è opportuno notare un elemento fondamentale della ricerca psicologica proposta da Caviola: quanto “dimostrato” nel suo studio – ossia che lo specismo esiste come discriminazione, come costrutto psicologico e che esso è affiancabile ad altre tipologie di discriminazione – rappresenta una sorta di scoperta dell’acqua calda, dato che lo stesso autore ammette che «fondamentalmente si tratta di ipotesi sulla psicologia umana che possono essere esplorate e testate empiricamente». Infatti sono esattamente 50 anni che se ne parla e generazioni di persone umane antispeciste sanno molto bene (e per tale motivo lo combattono), che lo specismo è uno dei cardini della nostra società e che rappresenta un pregiudizio, un’ideologia, un paradigma facilmente riscontrabili in ogni nostra azione e in ogni nostro pensiero. Non serviva di certo il sigillo dell’ufficialità accademica per determinarne l’esistenza. Con ciò non intendo di certo prendere le distanze da ricerche del genere, che sono utili se non altro ad approfondire e istituzionalizzare il problema, ma semplicemente affermare che l’attivismo antispecista non dovrebbe attendere (come purtroppo sempre più spesso fa) tempi, modi e placet accademici per poter progredire nell’elaborazione del pensiero e della prassi, bensì comportarsi come ciò che è sempre stato: un’avanguardia culturale, sociale e politica.
Adriano Fragano